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Le famiglie palestinesi di Zanuta affrontano i coloni che li hanno cacciati dai villaggi: «Dormiremo all’aperto, rivogliamo la terra», negli ultimi anni 100 fattorie illegali. Gli occupanti le difendono con violenza e droni, neanche le sanzioni Usa li fermano

Il 21 agosto Ribi Albatat, 63 anni, è tornato a Zanuta dopo dieci mesi. Alla fine di ottobre tutta la comunità – circa 200 persone – aveva impacchettato le proprie cose, portato via capre e pecore e aveva lasciato tutto indietro. Da anni subivano le minacce e le violenze dei coloni che vivono negli insediamenti e negli avamposti circostanti. Poi, dopo il 7 ottobre, gli abusi si sono trasformati in minacce concrete. «Vi uccideremo tutti se non ve ne andate», hanno detto loro. «Daremo fuoco alle vostre case, con voi dentro». Gli abitanti di Zanuta hanno provato a chiedere sicurezza e protezione alle forze armate israeliane, senza successo. Così una mattina d’autunno, hanno preso quello che potevano e sono andati via.

Nei giorni successivi i coloni hanno raso al suolo tutto: la sede del consiglio della comunità e la scuola, finanziati – come riportano le insegne ormai in frantumi – anche dall’Unione Europea, le stalle e le case, sulle macerie del muro della scuola hanno disegnato con la vernice una stella di David.

La scuola in macerie nell’ex villaggio beduino palestinese

 

Per mesi le famiglie di Zanuta hanno provato a fare appello al tribunale. Per mesi le denunce sono rimaste inascoltate, poi ad agosto la Corte Suprema si è pronunciata: gli abitanti possono tornare ma, poiché la zona è considerata zona di tiro da parte dell’esercito israeliano, non possono ricostruire nulla.

Una limitazione che non ha trattenuto Ribi Albatat e gli altri uomini della comunità che, scortati da volontari internazionali e anche alcuni volontari israeliani, sono tornati tra le macerie del villaggio con i loro animali.

«È la nostra terra, il nostro vento, l’acqua dei nostri pozzi», dice Albatat seduto di fronte ai resti della sua casa, all’ombra di un albero. «Dovessi anche dormire all’aperto per il resto della mia vita, lo farò. Voglio morire sulla mia terra».

 

 

Subito dopo il loro ritorno, però, i coloni hanno di nuovo fatto irruzione nel villaggio e l’esercito – che avrebbe dovuto proteggere il loro ritorno – non c’era.

Dall’altro lato della collina dove sorgeva Zanuta e dove ora restano solo ruderi e macerie c’è un avamposto: Meitarim Farm. È una fattoria costruita circa quattro anni fa da Yinon Levi e, come gli altri avamposti, anche Meitarim Farm è illegale, sia secondo il diritto internazionale e anche per il diritto israeliano. Yinon Levi è tra i sette coloni sanzionati dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna a febbraio per gli attacchi contro i palestinesi.

Ribi Albatat, 63 anni, non cede ai coloni e rimane, anche se l’esercito israeliano ha abdicato a proteggerli

 

Lo sviluppo dell’avamposto di Levi era stato avviato da una raccolta fondi avviata da Hashomer Yosh, un gruppo finanziato dal governo che invia volontari a lavorare nelle fattorie della Cisgiordania.

Erano stati proprio i “volontari armati” di Hashomer Yosh a minacciare gli abitanti di Zanuta assieme a Levi. Dati confermati anche dal portavoce del dipartimento di Stato americano Matthew Miller quando annunciò le prime sanzioni: «Dopo che tutti i 250 residenti palestinesi di Zanuta sono stati costretti ad andarsene, i volontari di Hashomer Yosh hanno recintato il villaggio per impedire loro di tornare». Oggi anche l’organizzazione è sulla lista delle sanzioni americane.

Le nuove sanzioni americane

Alla fine di agosto il dipartimento di Stato e il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti hanno annunciato nuove sanzioni, un altro tentativo da parte dell’amministrazione Biden, di fare pressione per fermare i coloni accusati di violenze e abusi sistematici contro i palestinesi.

L’organizzazione è proprio Hashomer Yosh, che secondo diversi organi di stampa israeliani ha ricevuto sostegno politico e finanziario diretto dal governo israeliano, in particolare dal ministero dell’Agricoltura e dal ministero dell’Ambiente israeliani e da singoli legislatori ultranazionalisti nella coalizione di governo, in più i membri senior dell’organizzazione sono affiliati ai partiti dei ministri ultranazionalisti Itamar Ben Gvir e Betzalel Smotrich.

In pratica, l’organizzazione invia volontari, sia singoli individui che gruppi organizzati, a svolgere attività di sorveglianza e assistenza presso gli avamposti agricoli in tutta la Cisgiordania. Con l’aiuto di questi volontari, una manciata di coloni (solitamente una famiglia e alcuni giovani volontari) crea una fattoria, sequestrando terre palestinesi. Negli ultimi anni sono state create quasi 100 di queste fattorie agricole. Per alcuni degli avamposti agricoli, la violenza è una delle pratiche utilizzate per impossessarsi della terra. Scrive Peace Now, organizzazione israeliana che monitora l’espansione degli insediamenti, che ci sono «centinaia di testimonianze e video degli ultimi anni che dimostrano la violenza associata a questi avamposti agricoli. Ci sono video in cui coloni che indossavano magliette e cappelli di Hashomer Yosh attaccano attivisti per la pace e allontanano famiglie palestinesi con la forza».

Alla fine di luglio Peace Now, ha avuto accesso a documenti riservati e pubblicato un rapporto che svela come il governo israeliano abbia stanziato milioni di dollari per proteggere le fattorie, gli avamposti illegali nella Cisgiordania occupata, finanziandoli e consentendo loro di ottenere le infrastrutture necessarie a trasformarsi in insediamenti a tutti gli effetti. Secondo l’organizzazione i fondi sono stati utilizzati per l’acquisto di droni, telecamere, generatori, cancelli elettrici, recinti e per finanziare la costruzione di nuove strade che collegano alcune delle fattorie e degli avamposti più remoti.

Per anni, Hashomer Yosh ha raccolto fondi negli Stati Uniti, anche tramite JGive, un sito web che raccoglie donazioni per gruppi che il governo israeliano certifica come enti di beneficenza. Le sanzioni, ora, congelano i beni di Hashomer Yosh negli Stati Uniti e impediscono ai cittadini americani di effettuare transazioni finanziarie con loro.

Il colono è Yitzhak Levi Filant, che vive e lavora nell’insediamento di Yitzhar, a sud di Nablus, già noto per aver guidato un gruppo di coloni armati a istituire posti di blocco e organizzare missioni punitive per costringere i palestinesi ad abbandonare le loro comunità e le loro terre. Yitzhak Levi Filant, coordinatore della sicurezza civile di Yizhar, è il primo funzionario israeliano a essere sanzionato dagli Stati Uniti in relazione alla violenza contro i palestinesi che ha portato al loro trasferimento forzato.

Come scrive Itay Epshtain, consulente senior di diritto e politiche umanitarie: «I coordinatori della sicurezza sono responsabili non solo delle squadre di guardie civili di avamposti e insediamenti, ma anche di fornire loro armi e del reclutamento di nuovi coloni. Esercitano autorità e dipendono direttamente dal governo». Per questo sanzionare Yitzhak Levi Filant è un passo significativo e un messaggio netto verso i ministri estremisti del governo.

Significa riconoscere il ruolo attivo che alcuni funzionari e servizi di sicurezza israeliani stanno svolgendo nel sostenere, incoraggiare e consentire la violenza dei coloni. Annunciando la decisione, il portavoce del dipartimento di Stato americano, Matthew Miller è tornato a ribadire la preoccupazione e l’allarme degli Stati Uniti: «La violenza dei coloni estremisti in Cisgiordania – ha detto – causa intense sofferenze umane, danneggia la sicurezza di Israele e mina le prospettive di pace e stabilità nella regione». Azioni simboliche, quelle delle sanzioni, ma necessarie a ribadire una volta ancora la posizione del governo americano: la Cisgiordania è sul punto di esplodere, i coloni vanno fermati.

Ma i coloni hanno risposto con sdegno, come già avevano fatto con le sanzioni precedenti. Sdegnati i ministri – Smotrich e Ben Gvir in testa – e i Giovani delle Colline, che sui loro canali scrivono: «Nessuno di noi abbandonerà Levi, il popolo di Israele si mobiliterà per loro».

Non sono solo gli Stati Uniti a essere allarmati dalla situazione in Cisgiordania.

Ehud Olmert, l’ex primo ministro israeliano, è convinto che l’allargamento della guerra sia uno degli obiettivi dell’ultra destra di governo: «Vogliono l’intifada – ha detto – perché è la prova definitiva che non c’è modo di fare la pace con i palestinesi e c’è solo una via d’uscita: distruggerli».

Nelle mappe di Netanyahu l’ipotesi di uno stato palestinese è già distrutta. Due giorni fa, durante una conferenza stampa a Gerusalemme, Netanyahu ha mostrato una mappa per spiegare le ragioni per cui l’esercito israeliano non cederà il controllo né sul corridoio Filadefia né su quello Netzarim.

Il primo ministro israeliano era in piedi davanti a una gigantesca mappa digitale, in cui la Striscia di Gaza resta una enclave e la Cisgiordania – semplicemente – non c’è. I territori palestinesi occupati sono cancellati. Non è la prima volta.

A fine settembre del 2023, poche settimane prima del 7 ottobre, Netanyahu aveva preso la parola all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Anche allora aveva con sé una mappa, che portava il titolo “Il nuovo Medio Oriente”: includeva Israele dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, senza delimitazioni che mostrassero i territori palestinesi occupati.

È l’obiettivo dichiarato dell’ultradestra che tiene in scacco Netanyahu, ed è l’obiettivo dei coloni estremisti a cui il primo ministro continua a strizzare l’occhio per la sua sopravvivenza politica.

Intanto le donne e i bambini di Zanuta restano sfollati, la scuola in macerie distrutta e gli uomini e le bestie dormono all’addiaccio.

Tornati sulla loro terra senza poter ricostruire una casa, distrutta da chi quella terra l’ha occupata illegalmente.

Sorgente: Cisgiordania, la resistenza dei beduini che sfidano i coloni – La Stampa


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