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Metà dei parlamentari democratici non va ad ascoltare Netanyahu al Congresso, mentre il consenso per Israele cala.

Non era mai successo che un primo ministro israeliano ricevesse al Congresso statunitense l’accoglienza che ha ricevuto mercoledì Benjamin Netanyahu. Circa 100 dei 212 deputati del Partito democratico alla Camera e 27 senatori su 51 hanno detto no, noi a questo appuntamento non ci saremo, mentre il giorno prima centinaia di attivisti ebrei americani si sono fatti arrestare per chiedere il cessate il fuoco a Gaza, e un appello di ex spie del Mossad chiedeva ai legislatori di Washington di non credere a una sola parola dell’ospite ingombrante, definendolo un pericolo pubblico per tutti. Boicottaggi che non hanno precedenti, che coinvolgono moderati così come i socialdemocratici, con un’assenza che si è fatta notare più di tutti: Kamala Harris, la vicepresidente che tutti ora osservano per capire come si comporterà in Medio Oriente.

Cos’ha detto Bibi nel suo discorso? Ciò che si aspettavano tutti: l’Iran menzionato come minaccia per il mondo libero dopo appena un minuto, poi un esordio a colpi di paralleli scontati (“Hamas ha commesso venti 11/9 in un giorno solo”) di strumentalizzazione del corpo femminile (“Ha stuprato donne”) e di fake news (“ha bruciato neonati vivi”: no, non è mai successo). Ha descritto la rappresaglia a Gaza come uno “scontro tra civiltà e barbarie” e promesso una vittoria totale. Fuori manifestavano in 5mila, e lui ha etichettato chiunque lo contesti come un sostenitore di Hamas.

Un discorso che non aggiunge nulla, di scarso interesse politico, rivolto interamente ai coloni violenti in patria e alla destra eversiva che lo applaudiva, dunque, privo di qualsiasi piano concreto per porre fine alla guerra e divisivo per gli Stati Uniti. Non si è assunto, Netanyahu, alcuna responsabilità per il più grande fallimento della sicurezza di Israele, accaduto sotto il suo controllo. Molto più coraggiosa invece Carmit Palty Katzir, donna il cui padre e fratello sono stati assassinati il ​​7 ottobre e sua madre rapita, arrestata dalla polizia del Campidoglio per aver indossato una maglietta che chiedeva a Netanyahu il cessate il fuoco.

Il discorso di Netanyahu, su invito dei leader di entrambe le Camere di Washington, non poteva cascare in una situazione più tesa: se il ritiro dalla corsa alle presidenziali di Joe Biden una settimana prima sta risucchiando tutta l’attenzione degli analisti, i Dem di tutto avevano voglia tranne che di dover gestire un alleato geopolitico visto con favore da appena il 5% della loro base elettorale (sondaggio Quinnipiac) e che porta con sé un marchio d’infamia: l’occupazione della Palestina che la sua coalizione etnonazionalista sta accelerando proprio in questi giorni è stata dichiarata illegale e fonte di apartheid dalla Corte penale internazionale, 9 mesi dopo l’inizio di una rappresaglia a Gaza costata la vita ad almeno 40mila palestinesi, anche se alcuni studi realistici parlano di oltre 180mila vittime. Sono questi i numeri occultati dalla standing ovation tributata dai Repubblicani a Netanyahu.

L’unica deputata palestinese del Congresso, Rashida Tlaib, è quella che usato le parole più dure: “Netanyahu è un criminale di guerra che sta commettendo un genocidio… va arrestato”. Rappresenta una corrente minoritaria nel partito, ma che una deputata statunitense, proveniente da uno Stato-chiave per le presidenziali come il Michigan, dove la comunità musulmana conta eccome, si esprima in questi termini sarebbe stato impensabile anche solo 10 anni fa. La visita insomma evidenzia come insieme al tessuto demografico del Paese cambi anche ciò che è considerato tabù in politica. Altri democratici di sinistra, come Alexandria Ocasio-Cortez, Cori Bush e Ilhan Omar, hanno usato parole altrettanto dure per spiegare la propria assenza.

È la quarto discorso di Netanyahu al Congresso – record, uno più di Churchill – e l’ultima volta, nel 2015, fu quasi altrettanto teso: 58 deputati democratici si assentarono perché Netanyahu era lì per bullizzare con la complicità dei repubblicani l’allora presidente Barack Obama, colpevole di aver timidamente criticato il programma di espansione delle colonie. In un’altra occasione, nel 2002, Netanyahu aveva invocato il primato statunitense in Medio Oriente con una clamorosa bugia, spiegando che l’Iran e l’Iraq si stavano per dotare di armi nucleari, che i loro sistemi balistici avrebbero presto colpito la costa orientale degli Stati Uniti, e che il presidente iracheno Saddam Hussein era in combutta con i talebani. Mistificazioni enormi, ma di successo, da parte di un leader di una potenza nucleare egemone, che avrebbe presto lavorato per rendere il gruppo radicale Hamas l’unico interlocutore (impresentabile) del popolo palestinese, fino al dramma del 7 ottobre scorso.

Netanyahu ha parlato in un Congresso molto più blindato e ostile di nove anni fa, nonostante il Partito repubblicano lo abbia accolto a braccia aperte, in nome del comune sentimento anti-musulmano, e Donald Trump gli abbia promesso una pace a portata di mano in caso dovesse essere rieletto (probabilmente chiudendo l’ipotesi di uno Stato palestinese in una bara e trasformando la Cisgiordania in un arcipelago di bantustan). Jerry Nadler, il più longevo politico democratico ebreo alla Camera, lo ha definito il “peggior leader della storia ebraica degli ultimi 2100 anni”, mentre sette grandi sindacati statunitensi hanno inviato una lettera a Biden invitandolo a “bloccare immediatamente tutti gli aiuti militari a Israele”: quasi sei milioni di iscritti tra camionisti, lavoratori postali, insegnanti e assistenti di volo.

Ma è il clima generale a essere cambiato, e a registrare il tracollo dell’immagine di Israele nel mondo occidentale. “Gli Stati Uniti sostengono troppo Israele?”, ha chiesto il già citato istituto Quinnipiac agli elettori democratici. Il 41% ha risposto di sì, e solo il 7% ha risposto “troppo poco”. Tra tutti i 18-34enni statunitensi i contrari a nuove forniture di armi sono 7 su 10, tra i Dem ben 6 su 10. Per vedere come sta cambiando il sentimento degli americani su Medio Oriente non bisogna guardare i dati assoluti, ma i trend: nel 2016, solo il 15% circa degli intervistati si schierava con le ragioni dei palestinesi. Nel 2014 appena il 2%. Oggi è il 30%.

Certo, il consenso per Israele è ancora maggioranza, negli Stati Uniti. Ma per la prima volta è una maggioranza relativa, calante, che si regge soprattutto su alcune specifiche categorie demografiche: repubblicani, anziani, uomini caucasici. Solo il 21% dei Dem e il 25% degli under-34 oggi sta con Israele. Secondo diversi analisti rispettabili, Kamala Harris sarebbe meno compromessa con la tradizionale alleanza di ferro rispetto a Biden, che è legato a vecchi schemi, e questo sta suscitando qualche speranza tra i sostenitori pro-Palestina.

Tuttavia, non bisogna sopravvalutare questa nuova narrazione che viene insinuata nell’elettorato di sinistra: Harris ha bisogno dei voti dei giovani e delle minoranze, ma la sua postura su Israele è stata caratterizzata sempre da conformismo e deferenza: «Non spiego a Israele come condurre una guerra», ha dichiarato tempo fa. L’approccio dell’amministrazione Biden nei confronti di Israele è stato in fondo questo: illudere la base con timide dimostrazioni di virtù in pubblico, e business as usual nei momenti che contano.

Eppure, il boicottaggio di Netanyahu potrebbe indicare il fatto che gli spin doctor dei Dem vedono in Netanyahu un elemento ormai diventato tossico, e questo sarebbe un cambiamento importante nella politica estera di Washington. Segno che Israele non controlla più la narrazione, e Harris non vuole perdere per strada segmenti di voto sempre più decisivi. Forse, per i Democratici e per la loro candidata alla Casa Bianca, la ricetta migliore ricetta potrebbe essere quella indicata dal politologo e saggista di fama internazionale Stephen Walt: ascoltare attentamente il discorso di Netanyahu e poi fare esattamente il contrario di ciò che consiglia.

Sorgente: Netanyahu non incanta più gli Usa


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