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La morte di Satnam ha sollevato giusto sdegno e indignazione. In Italia sono tanti però i lavoratori morti senza che nessuno sia stato punito per errori e prescrizioni: da Paola Clemente a Mohammed Abdullah, ecco le loro storie

di Giuliano Foschini

Avrete letto. Ascoltato: “Non deve succedere mai più”. Lo hanno detto politici, magistrati, giornalisti, forze di polizia, imprenditori anche sindacalisti (che bisogna dirlo: in queste storie, sono quasi sempre dalla parte giusta della storia). Piccolo spoiler: succederà ancora, purtroppo. Perché la morte di Satnam Singh non è stata certo il primo assassinio del lavoro dei campi, la prima morte di bracciante morto come uno schiavo tra la sdegno e l’irritazione del padrone (vedi l’intervista di Lovato senior, il padre dell’imprenditore arrestato). Non sarà l’ultima perché – questo per lo meno dice la cronaca – davanti a fatti come questi né la politica né la magistratura hanno saputo rispondere come dovevano. Con giustizia e pene esemplari.

 

 

 

Per esempio: Paola Clemente, bracciante morta nelle campagne di Andria ormai quasi dieci anni fa, il 13 luglio del 2015, è diventata suo malgrado un simbolo. Una donna, una madre, un’italiana è morta da schiava a poco più di due euro l’ora mentre raccoglieva l’uva nei campi di imprenditori bianchi e lautamente sovvenzionati dallo stato. E’ morta tra l’altro di caporalato grigio: aveva in tasca una normale busta paga, in modo tale che in caso di controllo tutto potesse risultare regolare. Peccato però che la paga alla fine del mese fosse di un quarto quella dovuta, perché un quarto delle giornate le venivano retrubuite a nero. Fatti due conti: Paola Clemente veniva pagata poco più di due euro l’ora. E per quello è morta. Bene, in suo nome è stata realizzata la nuova legge sul caporalato (la volle l’allora ministro del lavoro, Andrea Orlando), a lei è stata dedicata un’aula alla Camera dei deputati dalla presidentessa Laura Boldrini. Lei però, se le cose dovessero restare quelle di oggi, non avrà giustizia.

 

 

 

La morte di Paola Clemente è infatti a oggi senza colpevoli: per l’omicidio sono stati assolti i datori di lavoro. Ora la procura di Trani, insieme con la parte civile, ha presentato appello, ma chissà. Ma soprattutto il processo per il caporalato, quello che cioè doveva in qualche modo dire qualcosa su chi la sfruttava, è finito per via di una serie di lungaggini processuali in un binario morto. Risultato, come spiega l’avvocato Giovanni Vinci, “siamo in dibattimento da una vita e difficilmente, molto difficilmente, potremo arrivare a una sentenza di primo grado prima della prescrizione”. Paola Clemente, il simbolo, giustizia prescritta.

Non è andata meglio a Camara Fantamadi. Aveva 27 anni e viveva dal Mali. Era arrivato nel 2018 in Italia, aspettava il permesso di soggiorno per poter lavorare regolarmente. Intanto era costretto a farlo a nero. Sei euro l’ora, per questo si era trasferito da Eboli, in Campania, a Tuturano. E’ morto di infarto, mentre raccoglieva cocomeri a 42 gradi. La procura ha aperto un’indagine ma non si è riusciti ad arrivare ai suoi caporali. Gli altri braccianti hanno raccolto fondi per farlo rientrare a casa: lo hanno seppellito lì. Mohammed Abdullah, 47 anni, è morto il 20 luglio del 2015 a Nardò. Raccoglieva pomodori a 45 gradi. Il suo cuore non ha retto. Anche perché, è emerso dalle lunghe indagini, i caporali gli vietavano persino di bere, peri evitare che “potesse perdere del tempo”.

 

I caporali, appunto. Erano due. Uno è stato assolto in appello per mancanza di prove. L’altro, un imprenditore italiano, è deceduto prima della sentenza definitiva, dopo una condanna in primo grado. Risultato: Abdullah è morto e la giustizia non c’è stata. E’ la stessa storia di Famakan Dembele, 28 anni, maliano, abitante dei ghetti del foggiano, la più incredibile testimonianza dell’assenza dello Stato: migliaia e migliaia di persone che vivono in baracche, come fossero villaggi africani, e invece sono nostri vicini di casa. Con noi che guardiamo da un’altra parte. Facevano 46 gradi quando Famakan è morto di fatica, al termine di una giornata di lavoro a 30 euro. E’ stato condannato a 22 anni l’assassino di Soumalia Sacko, il bracciante del Mali ucciso a giugno del 2018 poco lontano dal Ghetto di San Ferdinando. Gli spararono perché raccoglieva ferro vecchio per costruire la sua capanna. Non sono mai stati trovati però quelli che lo sfruttavano sul lavoro. In questi giorni è arrivata l’archiviazione anche per la morte di Antonio Lombisani. Aveva 59 anni ed è morto nel luglio del 2022 mentre raccoglieva agrumi a Corigliano, in Calabria, con 44 gradi. “Mio padre andava a lavorare per 25 euro” raccontò sua figlia. Per quello, lo abbiamo fatto morire.

Sorgente: Paola, Camara, Antonio e gli altri braccianti uccisi dal lavoro che non hanno trovato giustizia – la Repubblica


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