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Oggi, primo luglio, Tim vende a una finanziaria statunitense l’intera rete delle linee telefoniche e dei cavi di fibra ottica per la trasmissione dati del nostro Paese. Un’operazione avallata dal governo Meloni, che ha abdicato a qualsiasi idea di “sovranismo”, e che pone problemi seri per l’interesse nazionale, per la qualità e i costi dei servizi e per la democrazia.
TIM, addio alla rete
–Franco Astengo*
Nell’indifferenza generale ieri il “Corriere” ha titolato: “Tim il giorno dell’addio alla rete”.
Siamo così arrivati al momento decisivo quello del conferimento (dal 1° luglio) della rete primaria (oggi un ramo d’azienda) a FiberCop che diventerà così proprietaria dell’intera infrastruttura di trasmissione telefonica dell’ex-monopolista.
L’atto sarà propedeutico al passaggio successivo: la vendita della società alla holding costituita da KKR, Abu Dhabi Investiment Authority, Canada Pension Plan Investiment Board, Ministero dell’Economia e F2i (una composizione evidentemente speculativa, come dimostra la presenza del fondo pensioni canadese).
Ventimila lavoratori passeranno così ad altro datore di lavoro : la TIM rimarrà con circa 16.700 dipendenti e il 70% dell’attività in Brasile e concentrata nei servizi alle imprese: i cavi sottomarini Sparkle saranno ceduti al governo come il 3% delle torri Inwit.
Un vero e proprio mutamento di paradigma. Siamo di fronte all’ennesimo passaggio che segnala l’ assenza dell’Italia da una qualche idea di piano di strategia industriale.
L’operazione TIM/KKR è un “unicum” in Europa: separazione della rete dai servizi e privatizzazione.
Inutile enfatizzare il ruolo dello Stato, come ha cercato di fare il governo: il fondo americano KKR diventerà proprietario al 65% di un asset strategico del nostro Paese e non ci sono stati forniti elementi per capire quali garanzie siano realmente previste per le scelte strategiche, l’occupazione, gli investimenti e la tutela dei dati.
Ne avevamo già accennato: in piena contraddizione “sovranista” così si dimostra tutta la fragilità del contorto processo di privatizzazioni avvenuto in Italia nel settore decisivo delle infrastrutture tecnologiche ( intendiamoci bene: dal tempo dei dalemiani “capitani coraggiosi” discendendo per le rami dal prodiano scioglimento dell’IRI).
Da allora si è creata una situazione di evidente scalabilità e debolezza, a dimostrazione di una ormai storica incapacità di programmazione dell’intervento pubblico in economia e di assenza di politica industriale (che coinvolge anche l’Europa).
L’opposizione e il sindacato non possono rimanere ingabbiati in questa dimensione strategicamente inesistente , tutta rivolta all’autoconservazione del politico, schiacciata dall’emergenza dell’immediato.
Serve un colpo d’ala nella progettualità e nell’intervento del pubblico sui nodi strategici, serve affermare la forza del movimento dei lavoratori da proiettare in avanti, non basta evocare un indefinito “green” e un imperscrutabile “digitale” in un Paese al centro della contesa europea e che accusa da tempo limiti enormi dal punto di vista della strategia industriale.
* Grazie a AFV
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