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di Luisiana Gaita

Sul dissesto idrogeologico l’ennesimo tentativo di mettere in piedi un sistema nazionale di prevenzione è già in ritardo. E poco si sa del piano annunciato a luglio 2023 dalla premier Giorgia Meloni. Obiettivo dichiarato: superare nel “medio termine” la logica degli interventi frammentati. Accadeva proprio nei giorni in cui l’esecutivo a guida Fratelli d’Italia stralciava “misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico” dalla bozza di rimodulazione del Pnrr redatta dal ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto. “Il Piano potrebbe vedere la luce nella prima metà del 2024. Ci stanno già lavorando i tecnici della cabina di regia” spiegava allora il ministro per la Protezione Civile Nello Musumeci. Quattordici mesi dopo, però, è lo stesso esponente del governo a pronunciare in conferenza stampa parole che non sono passate inosservate, specie quando ha spiegato che il piano nazionale sul dissesto idrogeologico è “fermo da cinque mesi nelle strutture del ministero per l’Ambiente a causa di un esame che “sembra essere particolarmente laborioso”. Ilfattoquotidiano.it ha cercato di saperne di più, chiedendo a Musumeci, tra le altre cose, di che piano si tratta e qual è l’iter che si sta seguendo. Laconica la risposta arrivata dal suo staff: “Il piano fa parte di un disegno di legge, nel quale è contenuta una modifica del codice dell’Ambiente. Quindi è fermo al Mase e stiamo aspettando il testo, ma nessuna polemica con il ministro Pichetto Fratin, come già spiegato in conferenza stampa”. Insomma, sul disegno di legge (e relativo piano) annunciato oltre un anno fa, al momento regna il mistero.

L’annuncio più di un anno fa – Eppure, dopo l’annuncio della premier, un anno fa, era stato proprio Musumeci a spiegare che nel testo ci sarebbe stata una nuova “rilettura del territori alla luce dei cambiamenti climatici, con interventi mirati, dal recupero e cura dei territori abbandonati alla realizzazione di nuove dighe, dalla riduzione degli sprechi idrici alla riqualificazione dei corsi d’acqua”. I costi? “Parliamo certamente di centinaia di miliardi, ma la sicurezza a costo zero non è possibile” commentava. Passato qualche mese, a novembre 2023, Musumeci ha dichiarato che se ne stava occupando il direttore di Casa Italia, Luigi Ferrara: “È impegnato nell’elaborazione di un disegno di legge per neutralizzare gli effetti devastanti della crisi idrica e idrogeologica, attraverso un sistema di prevenzione che veda innanzitutto semplificate le procedure e concentrate responsabilizzate le competenze”. Ora però, l’esame sarebbe diventato “laborioso”, solo che a riguardo il ministero per la Protezione civile, stando a quanto apprende ilfattoquotidiano.it “non può dire più nulla”. “Stiamo aspettando il testo – fa sapere lo staff – poi analizzeremo tutto”.

I precedenti e gli errori del passato (e del presente) – All’ennesimo piano si arriva dopo una lunga serie di tentativi. Da “ItaliaSicura” a “ProteggItalia” che, però, in quanto a protezione hanno lasciato a desiderare: dal 1999 al 2023 sono stati finanziati 11mila progetti per la riduzione del rischio idrogeologico, ma quelli ultimati in questo periodo di tempo sono meno della metà. Il censimento delle spesa effettiva e delle opere realizzate è quello del Repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo (RenDis) di Ispra. L’ultimo tentativo (penultimo, considerando il piano al quale sta lavorando il Governo Meloni) è stato il “Piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico, il ripristino e la tutela della risorsa ambientale”, il cosiddetto ‘ProteggItalia’ varato nel 2019, con il primo Governo Conte: sono stati mobilitati 14,3 miliardi di euro da spendere in 12 anni, fino al 2030. Il decreto prometteva una svolta radicale sugli investimenti, agendo sul fronte dei fondi, delle competenze e di una programmazione pluriennale che doveva dare un calcio alla logica dell’emergenza. In cinque anni, dal 2019 al 2023, gli interventi ultimati sono stati solo 597 con una spesa effettiva di 308 milioni, una media però di 61 milioni l’anno anziché 1,1 miliardi come prevedeva il ProteggItalia. E così, nel 2021, è stato severo il giudizio della Corte dei Conti, secondo cui quel piano ha unificato “il quadro generale dei finanziamenti, ma non ha risolto i problemi dell’unificazione dei criteri e delle procedure di spesa, dell’unicità del monitoraggio e dell’accelerazione della spesa”. La Corte dei Conti ha sottolineato anche le inefficienze del sistema, come l’incapacità delle Regioni di definire a monte gli interventi prioritari, distinguendo emergenza e prevenzione, i lunghi iter concertativi tra amministrazioni, la governance spaccata tra commissari regionali, ente locale e amministrazione centrale che eroga i fondi, la carenza di strutture tecniche e personale e via dicendo.

Cosa non ha funzionato finora – Al centro, un intreccio di competenze e la difficoltà nello spendere le risorse in tempi funzionali. Problemi che l’ex ministro dell’Ambiente, Sergio Costa conosce bene. “C’è quella relativa alla progettazione che spetta ai Comuni (devono indicare quali sono le zone a maggior rischio idrogeologico) e quella di validazione che è della Regione e si attua attraverso il portale RenDis” spiega a ilfattoquotidiano.it. Dopo l’ok, il progetto finisce sul tavolo del ministero dell’Ambiente affinché venga finanziato. Ma finora un grosso limite è stato proprio la competenza progettuale affidata ai Comuni: “Si parla di Comuni spesso piccoli, nella fascia prealpina o pre-appenninica, sotto i 15 o i 5mila abitanti. Ma è difficile progettare opere così significative attraverso uffici tecnici già spesso in affanno”. Durante il Governo Conte 2, da ministro dell’Ambiente, Costa ha lavorato a una norma che dà la possibilità ai Comuni, in forma gratuita, di poter chiedere aiuto a Sogesid, la società di progettazione ambientale partecipata del ministero dell’Ambiente.

Questa può progettare ed eseguire la direzione dei lavori, per i Comuni che ne fanno richiesta, prendendo in convenzione le spese generale, normalmente il 10 per cento, che è quanto normalmente spenderebbe ogni ente locale in fase di progettazione. “Questa è già legge dello Stato, si può fare ma pochi Comuni ne approfittano” spiega Costa. L’altro problema riguarda è l’appaltistica. “Perché il problema non è stato la carenza di risorse economiche, ma la mancata accelerazione della spesa. Prima che cadesse il Governo Conte, nel collegato ambientale della Finanziaria 2020, Costa aveva proposto una norma che semplificasse l’appaltistica pubblica preventiva per il dissesto idrogeologico “La competenza dei controlli era affidata ai soggetti abilitati, in particolare la Prefettura, con black e white list. Ad oggi, invece – continua – la quantità della spesa effettiva è ancora così bassa rispetto alle esigenze, perché tuttora servono in media dai tre ai cinque anni per gli appalti. Ma durante un periodo così lungo, si passa dalla prevenzione all’emergenza. Ma non si può trattare l’appaltistica pubblica del dissesto idrogeologico come si farebbe per altre procedure, dato che abbiamo il 74% dei Comuni con problemi di dissesto o alluvionali”.

Sorgente: Che fine ha fatto il piano sul dissesto idrogeologico? Il mistero – Il Fatto Quotidiano


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