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di Christian Peverieri

La notte del 26 settembre di dieci anni fa a Iguala, nello Stato messicano del Guerrero, la tragica sparizione forzata dei 43 studenti della Escuela Normal Rural Isidro Burgos di Ayotzinapa. Dieci anni e due presidenti più tardi, il caso Ayotzinapa è oggi il simbolo dell’ingiustizia e dell’impunità che lo Stato messicano concede a sé stesso. È simbolo dell’arroganza, della prepotenza, della brutalità e della tirannia del potere. Dieci anni più tardi però, Ayotzinapa è anche il simbolo dell’eroica e instancabile resistenza dei genitori contro un potere sordo, arrogante, violento, che senza pietà continua a tenere nel dolore e nel limbo le proprie vittime. È simbolo di una lotta che ha unito migliaia di genitori e familiari di desaparecidos del Messico, oggi arrivati alla scioccante cifra di 115 mila. Dieci anni più tardi Ayotzinapa rappresenta la voce di chi non ha più voce e di chi grida disperato ¡vivos se los llevaron, vivos los queremos!

Dieci anni son passati dunque dalla terribile notte in cui membri del gruppo criminale Guerreros Unidos, delle polizie municipale, statale, federale, dell’esercito e della marina concorsero a far sparire i 43 studenti, uccidendo altre sei persone. Le bugie, i depistaggi e gli ostacoli del Governo e della Procura iniziarono fin da subito, tanto che nel giro di quattro mesi l’allora procuratore capo Murillo Karam impacchettò la propria versione dei fatti, la cosiddetta “verdad histórica”, secondo la quale i 43 ragazzi sarebbero stati bruciati nella discarica di Cocula dai Guerreros Unidos. L’indignazione per la ricostruzione della Procura scatenò mobilitazioni in tutto il Paese e non solo, costringendo Murillo Karam a dimettersi e obbligando il Governo ad accettare l’arrivo del GIEI, il gruppo interdisciplinare di esperti indipendenti della CIDH. Le contro inchieste del GIEI in pochi mesi smontarono pezzo su pezzo la “verdad histórica” facendo alzare sempre più forte il grido “fue el Estado” e ridando fiducia e speranza ai genitori di ritrovare i propri figli.

Ma l’insistenza con la quale il GIEI cercò di entrare nelle caserme a indagare, in particolare in quella del 27º battaglione di Iguala, portò il Governo a non rinnovargli il mandato, obbligando gli esperti ad abbandonare il Paese. Prima di andarsene però, il GIEI pubblicò il secondo report nel quale evidenziò le gravissime violazioni dei diritti umani commesse dagli inquirenti per estorcere confessioni agli arrestati. A fine 2018 il presidente Enrique Peña Nieto se ne andò senza aver dato una risposta ai genitori, ma riuscendo comunque a garantire l’impunità per i funzionari pubblici coinvolti. Al suo posto, il nuovo Presidente López Obrador lasciò subito intendere che la musica fosse cambiata: come primo atto pubblico si ritrovò coi genitori e creò una commissione per la verità e la giustizia, facendo crescere la speranza di ritrovare con vita i 43 studenti. Nei primi anni di governo di López Obrador ci furono evidenti passi avanti verso la ricostruzione scientifica degli eventi grazie all’importante lavoro del GIEI, ritornato ufficialmente a lavorare sul caso, e del procuratore speciale Omar Gómez Trejo. Fu smontata definitivamente la “verdad histórica” e si giunse perfino all’arresto di Murillo Karam mentre Tomas Zerón de Lucio, l’altra mente del crimine ed ex direttore dell’agenzia criminale, per sfuggire alla cattura scappò in Israele dove ottenne asilo politico.

«Se acabó la verdad histórica», dichiarò pubblicamente il procuratore capo Gertz Manero a luglio del 2020, ammettendo la partecipazione delle forze armate e di funzionari pubblici nella sparizione forzata e di conseguenza che fu un crimine di Stato. Tuttavia, mano a mano che le inchieste del GIEI e degli avvocati delle organizzazioni di difesa dei diritti umani che accompagnano i genitori, si avvicinavano alle caserme, cambiava anche l’atteggiamento del Governo nei confronti del caso. Già durante il settimo anniversario della scomparsa, l’avvocato Vidulfo Rosales lamentava la lentezza delle indagini e le numerose zone d’ombra non ancora indagate. Nel marzo del 2022 il GIEI pubblicò il suo terzo report nel quale dimostrò il coinvolgimento attivo di esercito e marina, che avrebbero altresì manipolato e occultato informazioni relative al caso.

Qualche mese più tardi, la Procura annunciò l’arresto di Murillo Karam ma la notizia non entusiasmò i genitori, preoccupati per l’entrata «in una fase in cui il governo dirà che c’è una nuova verità». Che qualcosa tra Governo e genitori stesse scricchiolando lo si capì quando chi godeva della fiducia dei genitori fu fatto fuori dal caso: prima si dimise il procuratore Omar Gômez Trejo (in realtà cacciato perché in disaccordo con Gertz Manero) e successivamente il GIEI annunciò di dover lasciare il Paese perché impossibilitato a proseguire le indagini all’interno delle caserme. Nella conferenza stampa di addio, gli esperti del GIEI, dichiararono, ovvero provarono, che la SEDENA (Secretaría Defensa Nacional) e la Marina ebbero non solo un ruolo attivo nella sparizione forzata ma occultarono le indagini: in particolare, l’esercito si negò, e si nega, a consegnare agli inquirenti 800 documenti nei quali vi sarebbero importantissime informazioni per risolvere il caso. Ancora una volta lo Stato alzò un muro di impunità per proteggere le sue istituzioni corrotte e violente e ciò è evidente sia dal rallentamento delle indagini, sia dalle dichiarazioni di López Obrador, che iniziò a mettere in dubbio l’onestà del GIEI arrivando a smentirne il lavoro, e insinuando che l’obiettivo di tali contro inchieste fosse screditare lui e il suo Governo.

La strenua difesa dell’esercito da parte di López Obrador non si può capire senza allargare lo sguardo alla politica messicana, in cui proprio l’istituzione militare ha assunto un sempre maggior ruolo e potere, non solo politico ma anche economico. Infatti, López Obrador ha concesso ai militari non solo il controllo ma anche la costruzione e la gestione di importanti grandi opere come il Tren Maya o l’aeroporto di Città del Messico. Di fronte ai generali, alcuni implicati nel caso se non altro per conoscenza dei fatti, López Obrador ha voluto o è stato costretto a chinare il capo e ad obbedire.

Nell’ultimo anno di presidenza di López Obrador, il suo tradimento si è fatto palese con le prese di posizione a difesa dell’esercito e soprattutto con la criminalizzazione e con la stigmatizzazione del Centro Prodh, degli avvocati difensori e del GIEI. Di più, in un vortice sempre più incredibile, il Presidente è arrivato ad attaccare perfino i genitori, cercando oltretutto di dividerli e indebolire il movimento attorno ad essi. Nel luglio scorso López Obrador ha messo nero su bianco la sua postura a difesa dell’esercito, pubblicando un report con le sue “convinzioni” in cui ha ricostruito una nuova “verdad histórica” secondo cui l’Esercito non avrebbe partecipato alla sparizione forzata dei ragazzi e negando l’esistenza dell’ulteriore documentazione richiesta dal GIEI e dai genitori. Di più, in un delirio di egocentrismo ha affermato di essere lui la vittima e che le contro inchieste che prendono di mira l’esercito sono in realtà una cospirazione che risponde ad interessi nordamericani per screditarlo.

Di fronte a un report così sfacciatamente a difesa dei responsabili del crimine, i militari, la risposta dei genitori non poteva che essere: «ci ha mentito, tradito, ingannato». Perché come ha ricordato proprio in questi giorni l’avvocato Vidulfo Rosales, «la lotta dei 43 è legittima e genuina. L’unico interesse che hanno le madri e i padri dei 43 anni è che si sappia dove sono i loro figli. È un dolore che non si augura a nessuno, è un incubo che non finisce mai, un dolore indicibile che solo le madri e i padri che soffrono conoscono. C’è una rabbia degna, c’è rabbia perché le autorità non hanno fatto nulla all’epoca. Polizia municipale, statale, federale, militare al servizio dei criminali. Dove erano le istituzioni al servizio dei criminali di Iguala che hanno fatto sparire centinaia di persone. Come è possibile che un battaglione sia al servizio dei criminali. Questo dà motivi per andare a fare una protesta nelle caserme finché non ci daranno risposte».

Nonostante lo stallo nelle indagini e il tradimento di López Obrador, per i genitori la lotta infatti non si arresta, anche se «in questo Paese comanda l’esercito». L’insediamento di Claudia Sheinbaum – sostengono sempre i genitori – apre infatti una nuova fase ma con il presupposto che «non ci si può fidare del governo messicano» perché gli ha mentito in due mandati. Alla nuova Presidente dicono quindi che continueranno a lottare, che «continueremo a chiedere verità e giustizia. Finché non ci diranno dove si trovano i nostri figli, continueremo a cercarli perché li vogliamo e non possiamo abbandonarli».

Dieci anni dopo la tragica notte di Iguala e sei anni dopo dal suo insediamento, anche López Obrador se ne va, lasciando l’impunità ereditata da Peña Nieto, di cui ora è diventato anche lui responsabile. Resta anche e soprattutto la determinazione dei genitori e degli studenti di Ayotzinapa, l’unica forza in grado di abbattere quel muro di impunità eretto da destra a sinistra di fronte a chi esige giustizia “por los 43 y miles más”.

Sorgente: Da Peña Nieto a López Obrador, dieci anni di bugie e impunità su Ayotzinapa | Global Project


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