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In esclusiva, a due anni da quel giorno, pubblichiamo la lettera che l’attivista e premio Nobel per la pace Narges Mohammadi ci ha mandato da Evin, il carcere più famigerato in Iran

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È il 16 settembre 2022 quando Mahsa Zhina Amini, una ragazza curda di 22 anni, muore in un ospedale a Teheran dopo 72 ore di coma. L’hanno ridotta così i calci e i pugni della polizia morale del regime per una ciocca di capelli che le esce dal velo. Da quel giorno, migliaia di ragazze e ragazzi, e poi donne e uomini, scendono per le strade per chiedere la fine del regime. Nei mesi successivi la dittatura uccide oltre 600 manifestanti e incarcera più di ventimila attivisti. Le proteste diminuiscono, le strade si svuotano. Il regime impicca, ricatta, punisce, ma non riesce a fermare la nascita e l’espansione — fuori e dentro il Paese — del movimento Donna, Vita, Libertà: una rivoluzione sociale nel nome di Mahsa Amini e di tutte le donne iraniane senza diritti, che spaventa gli ayatollah. In esclusiva, a due anni da quel giorno, pubblichiamo la lettera che l’attivista e premio Nobel per la pace Narges Mohammadi ci ha mandato da Evin, il carcere più famigerato in Iran. Mohammadi fa il punto di questo tempo incerto e di cambiamento mentre annuncia uno sciopero della fame per il secondo anniversario del movimento «Donna, Vita, Libertà» e dell’uccisione di Mahsa (Zhina) Amini. Con lei, 34 compagne di cella. (Greta Privitera)

Sono passati due anni dall’uccisione di Mahsa Zhina Amini e dalla fondazione del movimento «Donna, Vita, Libertà» — nato sulla scia di altri movimenti sociali d’Iran — che, grazie al suo forte potenziale, ha accelerato la richiesta del popolo iraniano di democrazia, libertà e uguaglianza. Analizzando «Donna, Vita, Libertà» attraverso tre grandi variabili — le sue dinamiche strutturali, gli elementi ideologici e i risultati — concludiamo che è un movimento democratico, radicato nella coscienza collettiva, nell’azione collettiva e nell’esperienza su scala globale, e ha già avuto impatti a breve e a lungo termine sulla società iraniana.

 

Nulla dopo la nascita di questo movimento è più come prima. La trasformazione più significativa si è verificata nelle prospettive del futuro e nella coscienza del popolo sui diritti delle donne. Il passo verso questo cambiamento, rispetto ad altre riforme che hanno a che fare con la sfera politica, sociale e culturale, è stato notevole. L’hijab obbligatorio, uno degli ultimi e più importanti simboli dell’ideologia del regime religioso, è ora condannato, rifiutato o, perlomeno messo in discussione, da intellettuali e gruppi politici e sociali laici, ma anche da segmenti religiosi della società. L’opinione pubblica non lo vede più come un obbligo religioso ma come uno strumento di dominio e oppressione sulle donne. La lotta contro questo fenomeno non è solo per rivendicare il diritto delle donne di vestirsi come vogliono, ma anche per contrastare la dominazione e la tirannia della dittatura teocratica. La democrazia non esiste senza i diritti delle donne. Se vogliamo raggiungere la democrazia in Iran — uno dei paesi chiave nel caotico e devastato Medio Oriente — allora dobbiamo considerare i requisiti necessari per arrivare a questo obiettivo.

Affrontare l’oppressione e la discriminazione contro le donne è una questione essenziale e innegabile. Ignorarla non solo priverà metà della popolazione del Paese dei propri diritti, ma ritarderà anche la realizzazione della democrazia, della libertà, dell’uguaglianza e dello sviluppo sostenibile per tutti. Per questo motivo, credo che la criminalizzazione dell’apartheid di genere, di cui sono vittime le donne in Iran e Afghanistan, dovrebbe essere una priorità per la comunità globale, guidata dalle Nazioni Unite e dai Paesi democratici e sviluppati che fanno parte di questa organizzazione.

Inoltre, l’esistenza di organizzazioni indipendenti deve essere uno degli obiettivi principali di chi sostiene la democrazia che può esistere solo con una società civile forte. Nella società iraniana, il ruolo delle istituzioni, delle organizzazioni e reti civili come spina dorsale strutturale del movimento è decisivo. È evidente che la volontà del popolo iraniano di passare da una dittatura religiosa e autoritaria a un governo democratico, della libertà e dell’uguaglianza richiede la cooperazione e il sostegno dei movimenti democratici, delle istituzioni internazionali per i diritti umani e l’attenzione delle Nazioni Unite. Il primo passo verso la criminalizzazione dell’apartheid di genere trasformerà questa aspettativa in una speranza nazionale e globale.

Prigione di Evin – Tehran
29 agosto 2024

Sorgente: «Dopo due anni dalla morte di Mahsa Amini l’Iran non è più uguale, l’Onu sia attento a noi» | Corriere.it


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