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Perché il patteggiamento dell’ex governatore ligure inguaia Giorgia Meloni e tutto il centrodestra

di Massimo Giannini

Dopo cinque mesi di cocciuta battaglia contro la realtà, Giovanni Toti ripone la stampella. Seguendo le orme di Berlusconi – suo mentore politico e datore di lavoro, che pagò un generoso conto con la giustizia assistendo gli anziani nell’ospizio di Cesano Boscone – l’ex presidente della Liguria lo salderà con 1.500 ore di “lavori di pubblica utilità”. Ci sono ovvie differenze, tra il Cavaliere e l’ex governatore. È diverso il reato: frode fiscale contro corruzione impropria e finanziamento illecito ai partiti. È diversa la durata della pena: quattro anni contro due anni e un mese. È diversa la procedura: condanna definitiva contro patteggiamento. Ma nella sostanza, e al di là della forma, l’esito è sempre lo stesso: una resa all’evidenza dei fatti. Sul piano umano è comprensibile che Toti – insieme al “sollievo” – esprima anche “amarezza” per non aver perseguito fino in fondo le sue “ragioni di innocenza”.

Ma sul piano giuridico c’è poco da cavillare: è lui che ha proposto ai pm di patteggiare, e il presupposto di una richiesta di patteggiamento è sempre e comunque l’implicita ammissione di colpevolezza da parte dell’imputato. Dopo ben 219 giorni passati in buona parte agli arresti domiciliari, a combattere contro tutte le accuse e contro tutti gli accusatori, l’ex Governatorissimo salito dalla Lunigiana e asserragliato nel suo bunker di Ameglia deve aver capito che qualcosa non funzionava davvero, nelle sue apericene a base di caviale e champagne sul Leila 2 di Aldo Spinelli e sugli altri yacht extralusso dei signori dello shipping, intenti a spartirsi lavori e favori, assunzioni e prebende sotto la Lanterna. Deve aver realizzato che la zona grigia tra affari e politica è davvero un campo minato, e che quei 2 milioni e passa transitati da “loro” al suo comitato elettorale erano troppo difficili da giustificare. Dev’essersi reso conto che un “Sistema Toti” – magari a sua insaputa, come capitò al suo grande inquisitore Scajola – l’aveva messo in piedi sul serio, in una Liguria dove tra Porto di Genova e Pnrr, Terzo Valico e Gronda, Isola Palmaria e Terminal Rinfuse, non si muoveva foglia senza il patto tra la Regione e gli “Scià della Banchina”. Il legale di Toti – per spiegare il patteggiamento – dice adesso che i reati contestati al suo assistito non ruotavano intorno ad “atti” ma ad “atteggiamenti”, e dunque configuravano accuse troppo evanescenti sia per essere provate, sia per essere smontate. Li chiami come vuole: la rinuncia a difendersi in un normale dibattimento parla da sola. E dice di un meccanismo malato, nel quale cacicchi e capibastone senza soldi scendono a patti con affaristi e capitalisti senza scrupoli.

 

 

La mossa a sorpresa di Toti ha serie implicazioni politiche. La prima implicazione riguarda la prossima tornata elettorale. In Liguria si rivota il 27 ottobre, per scegliere il nuovo governatore. Il clamoroso e inatteso “mea culpa” dell’ex governatore – proprio perché presuppone l’ammissione di un dispositivo di potere reale, opaco e pervasivo – pesa come un macigno sul candidato appena scelto dalla destra. Marco Buccisindaco di Genova, ha preso le distanze da quel “sistema”, in questi lunghi mesi di tregenda. L’assalto al Porto gli è sembrato «una porcilaia», gli imprenditori che correvano alla mangiatoia gli ha ricordato «i maiali ai quali davo le ghiande da piccolo». Linguaggio forte, indignazione sincera. Ma resta un fatto: dalla tragedia del Ponte Morandi in poi, Toti e Bucci sono stati un corpo e un’anima. A Genova li chiamavano “Yoghi e Bubu”, il Web è pieno di meme che ricamavano sui loro tuffi in costume e salvagente dallo scivolo montato in via XX Settembre per il compleanno di Costa Crociere. Per carità, le colpe dei governatori non ricadono sui sindaci. Ma l’uno e l’altro hanno molto convissuto e molto condiviso. Senza considerare la malattia di Bucci – che per il suo coraggio merita gli auguri più affettuosi – c’è però da chiedersi quanto possa pesare sulla scelta degli elettori liguri e sul futuro della Regione, questa sua contiguità/continuità con il “totismo”. In genere, a questo punto del ragionamento, si dovrebbe dire: Giorgia Meloni farebbe bene a riflettere. Ma è inutile: anche stavolta non cambierà idea. Non lo fa mai, non è nella sua natura. Specialmente quando le cose della vita si accaniscono contro di lei.

 

 

E qui c’è la seconda implicazione. La svolta giudiziale decisa dall’ex delfino dell’Unto del Signore, e la sua conseguente assunzione di responsabilità nell’inchiesta, fanno crollare miseramente l’ennesimo teorema cospirazionista che la premier e i suoi alleati avevano costruito subito dopo l’arresto dell’ex governatore, il 27 maggio. Da Salvini a Musumeci, da Crosetto a Urso e persino Santanchè, già azzoppata da una richiesta di rinvio a giudizio per truffa ai danni dell’Inps e falso in bilancio: tutti, tra Palazzo Chigi e dintorni, avevano sollevato il solito sospetto, ben collaudato dal berlusconismo da combattimento: la “giustizia a orologeria”. Perché la procura si era mossa giusto un mese prima dal voto europeo? Finsero di non sapere che l’inchiesta era nata a Spezia nel 2020, e che le richieste di arresto ben sei pm genovesi le avevano già avanzate il 27 dicembre 2023. Ma è lo stile di casa Meloni. Qualunque cosa accada, le colpe sono altrove. E come nel Ventennio del Duce, il nemico ti ascolta, e trama contro di te.

 

 

È ormai lunghissima, la lista delle psicosi meloniane sulla cospirazione permanente. Il finanziere Striano che con la sua nuova P2 “mette a rischio la democrazia” e le toghe rosse smascherate da Crosetto mentre preparano il golpe nelle riunioni di corrente. La persecuzione giudiziaria contro Daniela-Pitonessa del Turismo e l’auto-complotto agostano contro Arianna Meloni inventato da Alessandro Sallusti dopo una palese insolazione. L’agguato a Sangiuliano ad opera della misteriosa Mata Hari di Pompei al servizio di una Spectre ancora ignota e la perfida Bianca Berlinguer che osa chiederle un’intervista su evidente istigazione degli eredi del Cav. Poi Marina-Zarina dell’odiata Mediaset che progetta la spallata insieme a Draghi e la temuta Dagospia che pesca nel torbido, tra il fu cognato Lollo e il camerata Fazzolari, la vera “scatola nera” (copyright Stefano Cappellini) del meloniano aereo più pazzo del mondo. E infine poliziotti sloggiati dal piano nobile di Palazzo Chigi perché probabili spioni al soldo dei Poteri Forti e i bolscevichi di Strasburgo che vogliono impallinare il mite Raffaele Fitto solo perché i sovranisti italici non hanno votato con la maggioranza Ursula. Adesso scopriamo che persino Christine Lagarde ordisce congiure giudo-pluto-massoniche per sabotare “la Nazione”. Ed è quasi un paradosso che a sostenere la requisitoria contro la Bce per il suo timido taglio dei tassi sia il ministro degli Esteri: solo pochi giorni fa schierava Forza Italia sul fronte dei diritti dei carcerati e lo Ius scholae, ora tace mentre la sua maggioranza vota sì alla galera per i figli delle madri detenute e per i giovani che protestano in piazza.

 

 

Anche il finto-centrista Tajani – come i vari Renzi e Calenda – è la prova vivente di quello che trent’anni fa sosteneva Mino Martinazzoli, e cioè che questo Paese orfano della Dc non ha bisogno di “moderatismo”, ma semmai di “moderazione”.

Vediamo cosa diranno adesso, le Sorelle e i Fratelli d’Italia in totale paranoia, in deficit di classe dirigente per il rimpasto e di risorse spendibili per la manovra. Li ha spiazzati e li ha inguaiati, questo epilogo imprevisto dello scandalo sulla “Liguria da bere”, ultimo cascame di una Questione Morale che cambia facce, cambia forme, ma non finisce mai. Forse anche Toti, col suo stupefacente autodafé, complotta per fermare la destra tricolore in viaggio verso la Storia.

Sorgente: repubblica.it


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