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di Sergio Labate

Non c’è nulla che possa lenire il dolore di osservare un mondo in frantumi che divora ogni giorno di più vite innocenti sugli altari di non si sa quali valori. Restare umani significa ormai essere ossessionati dalla coscienza dell’incoscienza del mondo: non è qualcosa con cui si possa convivere facilmente, a patto di non avere ancora abdicato a una qualche forma umana di senso della storia. Invidio tutti coloro che scelgono di sopravvivere come si può: affondando nei propri giorni o affidandosi ad essi con l’unico disperato intento di non pensar troppo. La storia – questa cosa che pensavamo finita e che si è risvegliata assediandoci con un’eruzione incontenibile di sangue e merda – è un macigno troppo grosso da affrontare per tutti noi, individui spaesati e dispersi in legami che hanno sostituito l’esigenza umana di condividere un senso comune con uno stanco e rassicurante bisogno di compagnia. Eppure mi ostino a cercare ancora delle parole, di fronte a quel che accade. Ostinazione che duplica l’impotenza, non serve affatto ad attenuarla. Parole che non servono a darmi speranza, ma a chiamare per nome la disperazione di un Occidente che ha deciso di dissolvere ogni residua utopia di se stesso nel peggiore e più crudele dei modi.

L’altro giorno, in un articolo poi rimosso per opportunità politica, il più grande e antico giornale israeliano in lingua inglese, il The Jerusalem Post, ha giustificato l’invasione di un paese sovrano come il Libano con il ricorso all’argomento della “Grande Israele”. Il Libano farebbe parte di quei territori che appartengono alla disponibilità di Israele per diritto divino: sarebbe Hashem (il “nome” di un dio che non dovrebbe mai pronunciarsi) ad aver definito i confini e il compito della loro occupazione sarebbe indicato a chiare lettere direttamente nella Torah. Una eterogenesi dei fini e dei mezzi per cui l’ebraismo negli ultimi decenni si è trasformato da religione dell’esilio a religione della reconquista, costringendo altri popoli a esili che ormai non conoscono tregua né giustificazione.

È anche questo un sintomo del modo assurdo in cui abbiamo deciso di estinguerci: affidando la difesa dei valori della modernità a ciò contro cui quei valori si sono istituiti, i fondamentalismi religiosi. Nella dissoluzione di ciò che siamo, non si può ignorare anche questa questione: come è possibile che abbiamo dato il comando dell’Occidente a monoteismi politici che disprezzano esplicitamente la più grande invenzione della modernità – la fiducia in una comune razionalità che legittimi le condotte e le scelte delle nazioni – e sono orgogliosamente mossi da ciò che la modernità ha sempre ripudiato, le religioni come strumento di oscurantismo politico e di guerre permanenti?

Qualcuno più saggio di me direbbe – con un buon grado di ragionevolezza – che ciò non è che la perversa e tutto sommato prevedibile deriva della presunzione dell’uomo moderno e occidentale, che ha giocato col fuoco pretendendo addirittura di sostituire tutto ciò che di umano e imperfetto risuona nelle domande religiose con la rigidità di una ragione che diventa universale, si impone a tutte le culture fino a trasformarsi in un progetto d’imperialismo e di colonizzazione. Quella ragione lì ha fallito e il contraccolpo del suo fallimento è questo rigetto oscurantista che ci troviamo a vivere: un’epoca in cui i fondamentalismi religiosi sono rimasti l’unico dispositivo efficace adagiato sulla risacca del nostro Occidente, quando ormai la marea dell’ottimismo illuminista si è definitivamente ritirata.

Oppure qualcun altro direbbe che nulla di nuovo c’è sotto il sole, e che il fondamentalismo religioso cui ci siamo affidati non è che il dispositivo ideologico per legittimare nient’altro che guerre economiche, in cui è sempre l’esercito di riserva dei poveracci e degli schiavi sotto altro nome ad essere in gioco. Niente di altro, niente di più che l’ennesima puntata della guerra eterna del capitale contro quelli rimasti ancora da sfruttare. È l’unico vero libro sacro della storia umana: quello che dissimula sotto falsi racconti e miti religiosi la serie infinita delle accumulazioni originarie che il capitalismo con la sua immaginazione creativa e perversa produce e di cui non riesce a fare a meno, trasformando ogni resistenza cultura e sociale in parole funzionali a questo sacrificio di donne e uomini all’avidità di pochi.

Altri ancora direbbero che il grande malinteso sta nell’idea che questa rappresentazione dell’ateismo che chiamiamo guerra abbia ancora a che vedere con la sete fondamentale di senso che da sempre si sedimenta nelle autentiche esperienze religiose – così mi dice chi davvero ci crede e io sono così disperato che mi affido ormai alla loro speranza che non riesco a far mia. Questo dio degli eserciti e delle riconquiste, questo dio da atei devoti che sacrificano sui loro altari chiunque passi per caso di lì in questo tratto di notte della storia che chiamiamo presente, non è che la profanazione del Dio della vita di cui anche la Torah dovrebbe essere traccia. Lo stato d’Israele sarebbe un luogo di questa storia istituzionalizzata dell’ateismo, nient’altro.

Hanno tutti ragione. E io ho torto nello scandalizzarmi. È questa versione da “monoteismo della fine” che mi sconcerta. Questa strana sensazione per cui non c’è ormai una testimonianza di religione monoteista che non sia una forma nemmeno troppo originale di fondamentalismo: Israele che invoca per giustificare la propria barbarie il suo dio che non può nominare; persino il Papa che decide di chiamare sicari dei cittadini che cercano di far applicare le leggi di uno Stato di diritto che giace ormai in brandelli. A resistere contro questo ritorno del fondamentalismo – le religioni post-secolari si chiamano – non mi pare vi sia più nulla. Non la ragione, non il sentimento: siamo troppo occupati ad accumulare dissing e competizioni da maschi alfa presi dal ricevere riconoscimenti per sé per poter davvero sentire che intorno a noi si muore sempre più nudi, sempre più soli, sempre più disumani. L’Occidente ha scelto il suo portabandiera: per brevità lo chiameremo “Grande Israele”. Ha scelto di indossare con orgoglio il vestito del proprio tradimento, della propria contraffazione.

Intanto noi stiamo qui. Qualcuno, come me, spende la propria disperazione facendo il “burattinaio di parole”, come canterebbe Guccini. Altri rischiando la pelle in questo delirio infinito che è il nostro presente. La maggior parte illudendosi che la grande madre occidentale ci difenda dalle guerre che ella stessa sta portando avanti. Ma un suicidio, fino a prova contraria, è un suicidio. Non è solo la morte degli altri – le vittime che fingiamo di non vedere incastrati come topi nella trappola di Gaza e del Medio oriente, ma è anche la nostra morte che giunge, mentre tronfi e illusi continuiamo a programmare le nostre giornate come se niente fosse. Confesso – con una nota personale di cui mi scuso – che il sentimento di questo lutto così prevedibile, io lo percepisco di fronte a mio figlio. Ha otto anni e il pensiero del suo futuro non è qualcosa a cui affidarmi, ma qualcosa da scacciare. La grande storia – quella che abbiamo scelto di dissolvere – serviva anche a questo: a collocare i sogni e le aspettative delle piccole storie. Se quella grande storia si dissolve non ci sono più futuri da immaginare, nemmeno per un padre nei confronti del proprio figlio. Ma non è già questo – il fatto che il futuro dei nostri figli sia diventato tempo impensabile e non più tempo da sognare – il segno più terribile che abbiamo perduto questa guerra che ci ostiniamo a portare avanti su più fronti?

Sorgente: Il suicidio dell’Occidente travolto dal proprio fondamentalismo


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