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(Un gruppo di soldate si fotografa davanti alle macerie di Gaza – foto Ap/Tsafrir Abayov)

«Non dimenticheremo, non possiamo fingere che non sia mai accaduto. Il 7 ottobre Benyamin Netanyahu non ha saputo difendere Israele e dopo non ha voluto l’accordo che avrebbe riportato a casa gli ostaggi ora a Gaza».

Di Michele Giorgio

OMER STEINER, EDUCATORE di 47 anni, attivo nel sostegno ai sequestrati di un anno fa, si dice convinto che gli israeliani, anche quelli di destra, presto o tardi presenteranno il conto al primo ministro. «Non ci fidiamo di lui – ci dice – Netanyahu ha agito per tutelare i suoi interessi, per soddisfare la sua voglia di potere e non realizzare ciò che chiedono i cittadini di questo paese. Il giorno delle elezioni sarà tragico per lui e i suoi alleati di governo». Altrettanta convinzione è stata espressa dal quotidiano liberal Haaretz schierato contro Netanyahu di cui chiede l’uscita di scena immediata.

Queste posizioni però, sebbene non marginali, avevano un fondamento nei mesi primi mesi del 2024. Oggi no. Chi aveva previsto, oltre che sperato, la fine dell’era Netanyahu, fa ora i conti con la nuova popolarità del premier.

Al potere dal 2009 il premier e leader della destra appare ora in una condizione ben diversa e più comoda da quella della fine del 2023. Nei primi mesi successivi all’attacco di Hamas, da Gaza nel sud di Israele, su di lui si sono concentrate l’indignazione e la rabbia per il fallimento dell’esercito e dell’intelligence, colti totalmente di sorpresa dall’operazione “Diluvio di Al Aqsa” lanciata dal movimento islamista palestinese (circa 1200 morti israeliani).

IL 7 OTTOBRE 2023 è apparsa drammaticamente evidente l’inconsistenza della politica di Netanyahu di «contenimento» (come la chiamano in Israele) di Hamas a Gaza, di totale emarginazione dell’Anp in Cisgiordania, e in definitiva di marginalizzazione dei palestinesi e dei loro diritti, fondata sull’idea che quel popolo oppresso e occupato da decenni non avrebbe più alzato la voce, dimenticato anche dal mondo arabo disposto a normalizzare le relazioni con Israele.

Quei fallimenti che frantumarono l’immagine di «Mr. Sicurezza» di Netanyahu, uniti alle divisioni profonde generate nei mesi precedenti al 7 ottobre dalla contestata riforma giudiziaria voluta dal governo di destra religiosa e dalle vicende giudiziarie di Netanyahu (sotto processo per corruzione e abuso di potere), sembravano aver avviato il primo ministro verso la fine politica. Persino gli elettori di destra l’avevano abbandonato. «Netanyahu vai a casa, vogliamo nuove elezioni e un nuovo governo», hanno scandito per mesi i famigliari degli ostaggi a Gaza e i loro sostenitori riuniti a migliaia il sabato sera a Tel Aviv, Gerusalemme e in altre città per chiedere un accordo con Hamas per lo scambio di prigionieri e il ritorno anticipato alle urne. Invece Netanyahu non era finito, anzi.

«ABBIAMO a che fare con un uomo politico scaltro, incredibilmente resistente e in grado di attraversare le burrasche politiche più distruttive grazie alla sua innata capacità di individuare le debolezze dei suoi avversari, di sinistra e di destra, e di interpretare il sentire popolare, i sentimenti degli israeliani e farsene interprete», spiega l’analista Michael Warshawsky. Netanyahu ha resistito a chi gli chiedeva di ammettere le sue responsabilità e di farsi da parte rispondendo che l’inchiesta sul 7 ottobre si farà, ma solo quando la guerra sarà finita. «Ora dobbiamo distruggere Hamas e gli altri nemici di Israele, poi faremo chiarezza su tutto», ha ribadito più volte mentre indirizzava l’offensiva israeliana a Gaza nel senso più distruttivo e letale possibile.

Poi ha rivolto l’attenzione verso il confine nord, al Libano, proclamando di voler riportare gli sfollati israeliani alle loro case non sulla base di un semplice cessate il fuoco bensì di una trasformazione radicale del quadro sul terreno in modo da imporre il ritiro di Hezbollah a distanza di molti chilometri dal confine sulla base della risoluzione 1701 dell’Onu e il disarmo del movimento sciita libanese alleato di Hamas. Ha invocato la legalità internazionale a suo piacimento per poi rinnegarla con sdegno quando essa, per decisione delle due Corti dell’Aja, si è rivolta contro la sua persona e Israele per i massacri di decine di migliaia di civili a Gaza e le violenze sui palestinesi incarcerati in Israele.

PIÙ DI TUTTO NETANYAHU ha ricostruito credibilità e consenso sul desiderio di vendetta sui palestinesi che ancora attraversa la società israeliana a un anno dal 7 ottobre e sull’eliminazione fisica dei capi delle organizzazioni nemiche giudicata con favore anche dall’opposizione. L’assassinio del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah è stato giudicato dagli israeliani ebrei, con rare eccezioni, un «successo straordinario» che rafforza il primo ministro.

Nasrallah aveva fatto del suo movimento una forza regionale ed era visto come una minaccia seria per Israele, meglio organizzata e molto meglio armata di Hamas. L’uccisione di Nasrallah peraltro è seguita a quelle di fine luglio del comandante militare di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut e del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran e, a raffica, nelle ultime due settimane di settembre dei più alti ufficiali dell’ala militare del movimento sciita. Senza dimenticare nei mesi scorsi gli «omicidi mirati» di esponenti politici e militari palestinesi di primo piano, come (ma non è ancora confermato) quello di Mohammed Deif, capo del braccio armato di Hamas.

«Un anno dopo, colpo dopo colpo… le loro speranze sono state infrante. Israele ha slancio, stiamo vincendo», ha affermato Netanyahu dopo la conferma della morte di Hassan Nasrallah in uno dei bombardamenti aerei più violenti subiti da Beirut. Alleati e avversari israeliani di ogni colore hanno applaudito.

UN SONDAGGIO dell’Israel Democracy Institute pubblicato nei giorni scorsi rileva che il 90% degli ebrei israeliani sostiene la decisione del premier di attaccare in ogni modo Hezbollah, nonostante l’offensiva ancora in corso a Gaza. Altri sondaggi mostrano che il Likud di Netanyahu otterrebbe in questo momento 25 seggi sui 120 seggi del Parlamento ben al di sopra dei risultati registrati dopo il 7 ottobre quando ne aveva 16.

Alla domanda sulla condotta della guerra da parte di Netanyahu, il 43% degli intervistati ha risposto che è «buona», in aumento rispetto al 35% dell’ultimo sondaggio, 10 giorni prima. I benefici politici per Netanyahu sono stati immediati: ha stretto la presa sulla sua litigiosa coalizione portando nel governo l’ex rivale Gideon Saar e ha aumentato la coalizione di maggioranza a ben 68 seggi sui 120 della Knesset. In questo modo ha anche ridimensionato il peso dell’estrema destra.

Se non ci fosse la questione dei 101 ostaggi ancora a Gaza, che coinvolge tutta la società israeliana, e che Hamas, nonostante i colpi subiti, continua a resistere a Gaza assieme al suo leader Yahya Sinwar, il revival di Netanyahu sarebbe completo. Il suo processo, la sua riforma antidemocratica del sistema giudiziario e i fallimenti del 7 ottobre sono stati rinviati sine die, a quando terminerà la guerra.

A FAVORIRE LA RISALITA di Netanyahu è anche l’assenza di una vera opposizione. Il leader della destra ha tanti rivali e nemici: dai centristi Yair Lapid e Benny Gantz all’ex primo ministro (di destra) Bennett, solo per citarne alcuni. Tuttavia, differenze e divergenze appaiono legate a questioni personali, causate dal carattere divisivo di Netanyahu che ha spaccato la destra. Dal punto di vista ideologico il premier non ha avversari degni di questo nome. Nessun leader israeliano nell’ultimo anno ha proposto un progetto alternativo a quello della guerra a oltranza contro palestinesi, arabi e iraniani.

Rula Daood e Alon Lee Green co-direttori di Standing Together, un movimento di base anti-occupazione, formato da cittadini ebrei e arabi di Israele, sottolineano che anche quella che un tempo era descritta come la sinistra difende la guerra con tutte le sue conseguenze per i civili. «Prendiamo Yair Golan – scrivono Daood e Lee Green – il leader del Partito Democratico (Partito laburista + Meretz) che ha proposto un’invasione israeliana di terra del Libano meridionale, inclusa l’istituzione di una zona di sicurezza larga due chilometri» in territorio libanese. Proprio i Laburisti e il Meretz che nel 2000 aveva ritirato l’esercito israeliano dal Libano ora resuscitano quella idea. «Dobbiamo esigere accordi diplomatici invece di avventure militari e presentare una visione di pace invece di crogiolarci in una realtà di occupazione e guerra. Golan sta andando nella direzione opposta. Critica il governo non da sinistra ma da destra, vuole ancora più guerra», dicono Daood e Lee Green. In tali circostanze per Netanyahu sarà facile tenere le mani ben salde sul volante di Israele e, con ogni probabilità, vincere le elezioni, quando si faranno.

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Di Michele Giorgio

 

 

Sorgente: Non era finito, anzi. Un anno da Netanyahu | il manifesto


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