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La guerra globale si sta avvicinando, a piccoli passi, quasi con perfida cautela, un po’ come la luce, all’alba, aumenta quasi palpando la sua preda, il mondo. Stiamo immobili come ipnotizzati, perché il pericolo esercita sempre un singolare potere ipnotico sulle vittime. Oppure chiediamo aiuto a una sorda volontà di rimuovere la paura, di viverci dentro senza pensarci, di vivere come se fosse un incubo che non ci riguarda. E invece siamo già al punto in cui tutto diventa avvertimento, tutto: i conflitti già in corso, le sfide ontologiche per un pezzo di terra, la diplomazia smantellata, le ciarle dei politici e gli utili rigonfi degli affaristi della morte di massa, i penosi ditirambi per gli immancabili destini dei filosofi da televisione. Se si riuscisse a comprenderlo tutto questo diventerebbe segno e immagine.

Soprattutto: a Est e a Ovest, a Sud e a Nord c’è troppa animosità, troppa sete di vendetta, galleggiano passioni dissennate spesse come un gas nervino nell’atmosfera. Poi un giorno le cose giungono a conclusione e danno la sentenza. E scopriremo che attorno a noi il mondo aveva già l’aria devastata, come alla fine della guerra l’esercito in ritirata lascia dietro di sé un paesaggio ferito e agonizzante.

Settanta anni dopo – sembra incredibile! – siamo ancora appiccicati alla teoria del domino. Nel 1954 il presidente americano Eisenhower la riassumeva così: se l’Indocina cade nelle mani dei comunisti cadranno inevitabilmente il Giappone, le Filippine, perfino l’Australia. Perché nel domino vince chi mette per primo sulla tavola tutte le sue pedine. Quella teoria era così sgangherata che Filippine, Giappone e Australia restarono al loro posto, gli americani persero una guerra e il Vietnam oggi è in migliori rapporti con Washington che con la Cina che allora lo aiutò a resistere e poi lo aggredì. Abbiamo applicato la stessa logica alla Russia putiniana: l’Ucraina è solo la prima pedina del suo domino, dopo verranno la Polonia, i Baltici, la Germania, l’Europa! E quindi: nessun negoziato, diplomatici e pacifisti in cantina, armiamoci, guerra totale, il cannone in Borsa galoppa!

La teoria del domino è il breviario purtroppo permanente degli interessati guerrafondai, secondo cui gli avversari del «mondo libero» vogliono inevitabilmente la conquista del pianeta, sono sempre in combutta tra loro e agevolano l’uno le prepotenze dell’altro. Con speculare imitazione dall’altra parte si sragiona: l’America e la Nato fanno cadere una dopo l’altra le pedine della nostra sicurezza, i Balcani, l’Afghanistan, l’Ucraina, Taiwan… avanzano, ci soffocano, vogliono distruggerci, attacchiamo per primi.

Che la Guerra Grande sia inevitabile lo prova il fatto che la forza è ormai, per democrazie e tirannidi, l’unica unità di misura delle relazioni internazionali. Essere più forti dell’altro, del nemico di oggi e di quello che certo lo sarà domani, dimostrarsi più scaltri, non commettere errori, diventare padroni della situazione. Perché tutti sono sicuri di vincere. Putin è sicuro di vincere, Zelensky è sicuro di vincere, Netanyahu è sicuro di vincere, Khamenei è sicuro di vincere, Xi Jinping è sicuro di vincere. Perfino Sinwar è sicuro di vincere.

Eppure bastava guardarsi attorno per evitare questi errori. Ci sono momenti in cui il cuore e la mente dell’uomo hanno la loro notte. Ecco, ci siamo. Nel terzo millennio masse umane ricevono per telefonino (la modernità!) l’ordine di spostarsi da dove vivono da sempre, prender con sé poche cose e accamparsi in una zona «sicura»: sgomberate, qui dobbiamo bombardare, ripulire, bonificare! E loro, palestinesi, libanesi, non certo quelli animati dal furore hamikaze di Hamas o di Hezbollah, quelli restano, prendono i figli, un valigia, un materasso, un po’ di cibo e a piedi, in auto, con il carretto tirato dall’asino paziente, obbediscono: se ne vanno, migrano come armenti. Dettagli direte, questi esodi, rispetto al numero dei morti: già, ma ci sono dettagli che sono importanti, fanno quasi da adesivo, fissano la materia, quella sì essenziale, della colpa. Guardate gli occhi di questi popoli in fuga quando la macchina fotografica li eternizza, quando un microfono li interroga. Non riesci a staccare da te quello sguardo, ti avvolge, ti insegue come un raggio implacabile. Ha la forza di un contatto fisico. Dovremmo impazzire di indignazione; dopo un po’ restiamo indifferenti.

I fatti, i fatti! Messi insieme lanciano accuse urlando a squarciagola: Putin sgranocchia centimetro dopo centimetro il Donbass con la feroce pazienza del pitone che inghiotte la preda. Israele, invece di chiedersi perché collezionare le figurine dei diabolici capi e sottocapi di Hamas e di Hezbollah eliminati non lo abbia portato a niente, sta per aprire il fronte più grande, la punizione dell’Iran, per far sbocciare la democrazia a Qom a cannonate e disegnare un Nuovo Ordine del Vicino Oriente con a rimorchio putridi regimi, l’Egitto di Al Sisi, l’Arabia Saudita del principe assassino, gli emirucci petroliferi: la «mappa della maledizione» con ayatollah e affini cancellata dalla «mappa della benedizione» che dall’India al Mediterraneo, a furia di bombe sacrosante, farà sgorgare il latte e il miele… Ecco qua l’ennesimo aspirante a ridisegnare il mondo, Beniamino Netanyahu, un altro colpito dalla «hybris» che come ammonisce il poeta dà come frutto spighe di rovina e raccoglie messe di pianto.

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it)

Sorgente: Un passo dopo l’altro verso la guerra totale – infosannio


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